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Modernità e modernizzazione: L’americanizzazione “universale”

* Dalla lezione di Mario del Pero

La parola chiave che riassume il contributo di Mario Del Pero alla nona Summer School organizzata dal CISPEA è “modernizzazione”. Una modernità – quella americana – che nei primi anni della Guerra fredda diventa esempio segnando “un’americanizzazione dell’Europa, dove i modelli americani diventano modelli universali”. La nostra riflessione è partita proprio da qui, dalla classica pubblicità americana dei primi anni Cinquanta con l’idealtipo della famiglia statunitense – che viveva nei suburbs, guidava una Ford e che si riuniva in salotto davanti alla tv – attraverso cui si pubblicizzava non solo un sistema economico basato sullo sviluppo dei beni di consumo, ma anche l’ideale di uno stile di vita che puntava a stabilità e benessere.

Un modello che era irresistibile agli occhi dell’Europa, pronto per essere standardizzato ed esportato. Un modello a cui però, considerato il contesto di Guerra fredda e competizione bipolare, se ne contrapponeva un altro, alternativo e rivale, quello sovietico. Una contrapposizione che aiuta a spiegare le scelte di politica interna ed estera compiute dagli Stati Uniti nel Secondo dopoguerra fino almeno alla caduta del muro di Berlino, dato che l’unico modo per uscire vincitori dal conflitto era quello di far prevalere il “great American experiment” sul “great Russian experiment”. Se il modello sovietico parve proporsi come la scorciatoia più rapida verso la modernità, giustificato – almeno fino agli anni Settanta – anche dai dati quantitativi disponibili, il modello americano tentò di presentarsi come un modello dalla portata universale attraverso il legame concettuale tra modernizzazione e americanizzazione. Esso riuscì infatti a creare un nuovo paradigma capace di investire la dimensione sociale, politica ed economica di tutto il blocco occidentale.

La modernizzazione finì in tal modo per diventare sinonimo di fordismo, di welfare, di sicurezza e stabilità politica ed economica, di produttività, di piena occupazione, di consumi di massa (al punto che il concetto stesso di cittadinanza finì per legarsi alla possibilità di accesso ai consumi) e soprattutto di ampliamento e affermazione della middle class, definita sempre più dal reddito, dalle abitudini e dalla capacità di consumo, e considerata garante della stabilità democratica all’interno del Paese.

Tuttavia, la realizzazione di questa middle class revolution, così come la proiezione su scala globale dell’American way of life, richiedeva oltre ad una politica estera attiva, anche l’individuazione e il sostegno di interlocutori locali, che fossero capaci di veicolare questo modello in regioni eterogenee fra loro e profondamente diverse e distanti dal contesto sociale statunitense. Fu proprio questa necessaria ricerca di alleati locali a determinare una delle prime e più evidenti contraddizioni della politica estera statunitense negli anni della Guerra fredda: gli interlocutori a cui gli americani erano costretti a rivolgersi non furono, infatti, mai quelli che loro avrebbero voluto. Anzi, il più delle volte gli Stati Uniti finirono per essere costretti a trovare una sponda politica in soggetti poco recettivi verso il modello di modernità da loro proposto, o addirittura in soggetti che negavano quel modello e/o lo ribaltavano. La rigidità della logica bipolare di contrapposizione globale tra modello sovietico e modello americano finiva, infatti, per far sì che l’anticomunismo diventasse l’unico criterio determinante (sebbene non l’unico tenuto in considerazione) su cui fondare le alleanze con le forze politiche locali al governo nei diversi Paesi posti sotto l’egemonia americana.

Due degli esempi forse più significativi a dimostrazione della contraddizione che venne così a generarsi sono quello dell’Italia e quello dell’America Latina. Nel primo caso l’interlocutore privilegiato, la Democrazia Cristiana, accolse solo in parte il modello americano di modernità e i valori e le politiche economiche e sociali che esso comportava, dimostrandosi, anche agli occhi degli stessi americani, poco ricettivo nei confronti dei progetti di modernizzazione sociale, economica e culturale che gli USA avrebbero voluto realizzare in Italia. Nel secondo caso, il timore di una diffusione del comunismo in America Latina, spinse gli americani a dare il loro sostegno a regimi dittatoriali che negavano completamente il paradigma statunitense della libertà e della modernità. A tal proposito è significativo che Roosevelt, riferendosi a Somoza, abbia affermato “sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Oltre alle evidenti contraddizioni, le scelte poco coerenti crearono anche problemi di legittimazione rispetto all’opinione pubblica nazionale e mondiale.

Un altro dato importante emerso dall’analisi di Del Pero è quello relativo allo stretto legame che intercorre tra modernizzazione da un lato e sicurezza, interna ed esterna, dall’altro. Nella logica di pensiero statunitense, infatti, una realtà in cui non sia in corso un processo di modernizzazione economica, culturale e sociale è destinata, per sua stessa natura, a risultare arretrata e a costituire una potenziale fonte di minaccia alla stabilità e alla sicurezza interna, determinando il fallimento del sistema pacifico e democratico ben rappresentato dal welfare state. La questione relativa alla sicurezza esterna presenta, invece, una dimensione più complessa. Gli Stati Uniti sentivano la necessità di esportare il loro modello per difendersi da un collasso sistemico che, sulla base della “teoria del domino”, fondata sulla convinzione che ogni focolaio di tensione fosse potenzialmente in grado di trascinare gli altri Paesi nell’esplosione di un conflitto degenerativo, temevano avrebbe coinvolto inevitabilmente gli Stati Uniti e le aree d’influenza americane. Il loro intervento tempestivo in ogni parte del mondo, pur giustificato agli occhi dell’opinione pubblica come una declinazione della loro vocazione missionaria, era, in realtà, una mera strategia egoistica per tutelare la propria sfera di influenza a dispetto dell’URSS. Questo tentativo venne in gran misura intrapreso in quelle aree del mondo che, secondo gli studiosi Millikan e Rostow, si caratterizzavano per la loro natura “premoderna” e per il fatto di non ricadere ancora nell’orbita d’influenza sino-sovietica. Soprattutto durante l’amministrazione Kennedy si tentò dunque di intervenire e di prestare aiuti economici e militari ai Paesi in via di sviluppo, per definizione deboli e vulnerabili al fascino degli ideali rivoluzionari comunisti. L’America Latina, il Vietnam del Sud e l’Africa furono sin da subito individuati come possibili laboratori dove applicare le nuove teorie della modernizzazione. Gli interventi statunitensi e la loro portata modernizzatrice rivelarono ben presto però i loro limiti, unitamente ad un’eclatante contraddizione interna: l’esigenza vitale di contenere l’influenza comunista, tollerando – e in taluni casi appoggiando – svolte neoautoritarie ed antidemocratiche, venne mascherata dalla necessità di esportare in questi Paesi “premoderni” le istituzioni democratiche ed il sistema economico liberale per garantire il benessere alla popolazione civile arretrata. Ci si rese conto infatti di come gli apparati militari potessero incarnare quel “potenziale modernizzatore” che era necessario diffondere nei Paesi in via di sviluppo e rappresentassero, dunque, una forza stabilizzatrice in grado di prevenire la caduta di questi Stati nelle mani del comunismo. L’identità modernizzazione-sicurezza rivelò ben presto il suo fondamento, grazie anche alle posizioni radicali e portate alle estreme conseguenze dallo scienziato politico Samuel Huntington, il quale però mosse una severa critica alla teoria della modernizzazione coniugandola con una forte esaltazione conservatrice ed antiprogressista dell’importante ruolo stabilizzatore delle forze armate.

Analizzando il concetto di modernizzazione nel periodo della Guerra fredda, è parso inoltre importante focalizzare l’attenzione anche sul nesso che ha strettamente unito il tentativo di esportare il modello di modernizzazione americana e la grande fiducia riposta nel progresso delle scienze; tale fiducia ha avuto per oggetto sia le scienze sociali che le hard sciences, ed è giunta in certi momenti a livelli tali da far parlare di scientismo.

Al termine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si presentavano vincitori su tutti i fronti, e al vertice del nuovo ordine economico globale. Inoltre lo sviluppo della bomba atomica, il vasto ricorso a brillanti menti scientifiche per scopi bellici e la volontà di conservare il vantaggio tecnologico accumulato sull’URSS avevano consegnato agli Stati Uniti anche una superiorità a livello mondiale in campo scientifico.

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Buzz Aldrin sulla Luna fotografato da Neil Armstrong, 20 luglio 1969.

Buzz Aldrin sulla Luna fotografato da Neil Armstrong, 20 luglio 1969.

I ripetuti successi tecnologici furono il combustibile che alimentò la fiducia nelle hard sciences, esemplificata dalla promessa fatta dal presidente Kennedy nel 1961 di portare l’uomo sulla luna (e farlo tornare sano e salvo) entro la fine del decennio, promessa che in realtà venne fatta in un momento di profonda instabilità delle certezze americane. Il programma spaziale sovietico, infatti, regalava di continuo all’URSS nuovi primati, costringendo per 3–4 anni gli americani ad una affannosa rincorsa, unitamente alla detonazione del primo ordigno nucleare sovietico, avvenuta in largo anticipo rispetto alle previsioni, avevano creato un senso di insicurezza generalizzato anche verso le capacità previsionali degli scienziati di Washington. Questa paura spinse ad aumentare ulteriormente gli investimenti nelle istituzioni scientifiche, soprattutto in quelle che potevano garantire avanzamenti nel settore bellico, e i nuovi successi, culminati nello straordinario programma Apollo, furono gli elementi che sancirono il definitivo recupero della fiducia nel primato americano nelle scienze fisiche e naturali e nella loro capacità di contribuire alla modernizzazione del paese.

Diverso è il discorso relativo alle scienze sociali, la cui accresciuta importanza si può probabilmente ascrivere al combinato di crescita economica e stabilità politica che gli Stati Uniti conobbero dalla fine della guerra fino ai primi anni Sessanta: l’espansione della middle class, dovuta alla massificazione dei consumi, e la riduzione della conflittualità sociale (che stava in realtà covando sotto la cenere in attesa di esplodere nei decenni successivi), generarono in molti scienziati sociali ed in alcuni politici (ma non solo) la convinzione che gli Stati Uniti avessero trovato la chiave per realizzare la società perfetta, o che fossero comunque sulla strada giusta.

Nell’ambito del nuovo ordine geopolitico globale che si andava delineando e dopo la nascita dei due blocchi, apparve chiaro a molti che il Paese poteva e doveva farsi carico di esportare il proprio modello di sviluppo, anche se dietro questa spinta vi erano due motivazioni differenti: una minoritaria ed ideologica che vedeva nello sviluppo altrui (realizzato naturalmente seguendo il modello americano) un fatto in sé positivo, ed una maggioritaria che inseriva tale processo nel contesto della Guerra fredda, contrapponendo la modernizzazione “giusta” americana a quella “malata” sovietica, indicando in questo modo la via da seguire per i Paesi che sarebbero dovuti ricadere all’interno o sotto l’influenza del blocco occidentale.

Un chiaro esempio di questa volontà di esportazione si può rintracciare nel paper che Rostow pubblicò nel 1960 con il titolo The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, nel quale delineava in modo chiaro e netto il percorso di sviluppo che un’economia avrebbe dovuto seguire per raggiungere lo stadio ultimo e migliore, quello della società dei consumi di massa, da lui identificato con la realtà americana. Dividendo lo sviluppo di un’economia nazionale in 5 stadi, Rostow individuò un percorso lineare e netto, che non prevedeva la possibilità di salti in avanti o passi indietro, e che se imboccato nel modo corretto avrebbe portato ad un’unica conclusione: lo sviluppo di un’economia capitalista, basata sulla massificazione dei consumi, migliore del, ed alternativa al, modello comunista (del quale riconosceva le capacità di generare crescita, che definiva però “malata”). Si trattava insomma di una teoria scientifica con valore fortemente prescrittivo, che idealizzava il modello americano rendendolo applicabile a tutte le realtà possibili, senza che ne venissero considerate peculiarità e differenze.

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Firma dell’Atto di Helsinki, 1° agosto 1975.

Firma dell’Atto di Helsinki, 1° agosto 1975.

La modernizzazione aveva però un’altra dimensione, quella riguardante la crescente attenzione verso il tema dei diritti umani. A metà degli anni Settanta, infatti, il paradigma della modernizzazione americana tentò di rivolgersi verso nuove frontiere: in particolare, con l’amministrazione Carter, gli Stati Uniti si fecero garanti del rispetto dei diritti umani, questione basilare per lo sviluppo di rapporti internazionali di natura collaborativa o commerciale. Seppure tale linea politica non rappresentasse propriamente una novità – si pensi alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e all’Atto di Helsinki del 1975, contenente il “third basket on human rights” – l’appoggio dell’amministrazione americana a questo indirizzo fu decisivo per conferire alla politica di distensione europea quella credibilità internazionale necessaria ad avviare la discussione su temi molto delicati che, spesso, andavano ad interferire con la sovranità statale. Il partito democratico americano aveva già tentato un simile approccio nella prima metà degli anni Settanta con l’emendamento Jackson-Vanik, proposto nel 1972 ed approvato nel 1974, che legava la disponibilità americana ad esportare grano in URSS alla certezza che all’interno del blocco sovietico fossero rispettati i diritti fondamentali dell’uomo. Tale emendamento, seppur approvato e discusso, non fu applicato con grande vigore dall’amministrazione repubblicana di Nixon e Kissinger: il linkage da loro elaborato, per ottenere risultati significativi, non prevedeva infatti un’intromissione invasiva nella sovranità del blocco sovietico. La situazione cambiò durante i primi anni dell’amministrazione Carter. Fondamentale per la redazione del sopra citato “third basket on human rights” e per l’“emphasis on human rights”, che guidò la linea politica democratica nella campagna elettorale e nelle elezioni presidenziali del 1976, fu la figura di Zbignew Brzezinski. Quest’ultimo, divenuto Consigliere per la Sicurezza Nazionale, sostenne la necessità di un “nuovo linkage” che fosse basato sulla diffusione dei diritti umani in tutta la sfera d’influenza sovietica. Questa nuova posizione americana rappresentò un passo decisivo per la diffusione della modernizzazione o, meglio, del paradigma di modernizzazione che gli americani si erano proposti di esportare. L’intransigenza che l’amministrazione democratica mostrava sul tema dei diritti umani spinse infatti l’URSS a modificare i suoi parametri di azione: mentre nel 1945 la potenza comunista si era astenuta dal voto sulla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo proposta dalle Nazioni Unite, nel 1975, con il mutare delle condizioni politiche internazionali europee (Ostpolitik) e americane, firmò l’Atto di Helsinki e, nel 1977, adottò una nuova costituzione che garantiva il rispetto delle libertà riconosciute fondamentali dalla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Come noto, l’amministrazione Carter subì si allontanò progressivamente dalla “human rights policy” nel corso del suo mandato, distacco che culminò con l’adozione della vecchia agenda della Guerra fredda. Probabilmente, questo radicale cambio di direzione, insieme alla mal gestita tensione derivante dal sequestro degli ostaggi americani in Iran, fu la causa della sconfitta di Carter alle successive elezioni presidenziali. Secondo molti studiosi, gli ultimi anni di Carter segnarono una profonda controtendenza rispetto ai primi. La svolta antisovietica alla fine del suo mandato equivaleva, del resto, a riconoscere che quella seguita fino ad allora era stata una linea sbagliata e imprudente, almeno agli occhi dell’opinione pubblica. Tale cambiamento di Carter nell’approccio alle problematiche internazionali condizionò significativamente anche il suo contributo nel campo dei diritti umani. Romero definisce tale insuccesso di Carter come “il suo mesto destino politico”, ma anche altri studiosi concordano che la dualità di Carter inficiò la validità dei risultati, alcuni parziali, altri completi, da lui ottenuti, che furono in seguito esaltati dalla decisa politica di Reagan. Se, infatti, si può ampiamente discutere sul successo politico della gestione Carter, è meno discutibile l’impatto che il suo nuovo paradigma di modernizzazione ebbe a livello mondiale e nel confronto bipolare. Non può essere imputata alla mera casualità infatti la proliferazione, durante la sua amministrazione, dei movimenti dissidenti all’interno del blocco sovietico. Nel 1976, infatti, nacque il Moscow Helsinki Group, movimento di militanti per i diritti umani fondato da Yuri Orlov, che intrattenne numerosi rapporti di corrispondenza con il presidente democratico. L’anno successivo venne, invece, fondato in Cecoslovacchia il movimento Charta 77, guidato dal drammaturgo Václav Havel, il principale protagonista del processo che portò al raggiungimento dell’indipendenza dal blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta. Carter fu, in definitiva, un uomo nuovo nel panorama politico mondiale: sollevò una problematica considerata, forse per troppo tempo, una questione di secondo piano. La freschezza delle sue idee, anche se non sostenute fino all’ultimo, fu sicuramente percepita da coloro che lottavano quotidianamente per le libertà fondamentali dell’uomo: non a caso, il presidente americano risulta essere, tra i politici dell’epoca, il più citato in assoluto nelle opere dei dissidenti appartenenti al blocco di nazioni che sottostava al regime comunista.

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Il presidente Kennedy davanti alla placca inaugurale di un’iniziativa all’interno del programma di aiuti ”Alleanza per il Progresso”, Colombia, 17 dicembre 1961.

Il presidente Kennedy davanti alla placca inaugurale di un’iniziativa all’interno del programma di aiuti ”Alleanza per il Progresso”, Colombia, 17 dicembre 1961.

La delicata questione dei diritti umani andò a intrecciarsi col paradigma della modernità per rendere protagonista dello scontro bipolare un nuovo teatro, fino a quel momento oscurato dalla colonizzazione, e appetibile alleato per entrambi gli schieramenti: il Terzo Mondo. Negli anni Sessanta, questa regione divenne l’obiettivo principale delle politiche statunitensi che attraverso riforme economiche miravano alla crescita del PIL e della produttività. La Guerra fredda divenne pertanto davvero globale, investendo Africa e Asia e coinvolgendo a lungo i Paesi dei due continenti; i paradigmi di modernizzazione e le promesse di benessere erano le armi con cui pretendere lo schieramento a favore di uno dei due blocchi, attraverso l’attuazione di politiche che non erano altro che la messa in pratica delle teorie di Rostow tanto in auge all’epoca.

È possibile individuare un parallelismo tra l’esportazione della modernizzazione di Rostow e l’esportazione della democrazia in Iraq teorizzata dall’amministrazione Bush e legata alla retorica della democrazia. Una democrazia – globale – che appariva sotto attacco all’indomani dell’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001.

Persino Le Monde, notoriamente scettico verso le politiche USA, titolò in prima pagina “We are all Americans”. Così facendo l’allora presidente George W. Bush poté elaborare la sua dottrina, plasmata sul modello di Reagan, forte del sostegno europeo di fronte alla prospettiva di avere un comune nemico da fronteggiare e sconfiggere. Esattamente come ai tempi della Guerra fredda, gli Stati Uniti ritrovavano il loro ruolo e la loro posizione andando a riempire il vuoto strategico lasciato dal crollo dell’Unione Sovietica e dall’impossibilità di dare un nome e un volto alla minaccia.

Oggi terrorismo, ieri comunismo. Quello che negli anni Ottanta Reagan definiva empire of evil, l’impero del male, veniva definito da Bush come axis of evil, l’asse del male. L’effetto rievocativo fu sensazionale, e la miscela esplosiva fatta di patriottismo, sicurezza e promozione della democrazia sembrava funzionare, rimettendo in moto la potente macchina globale, per troppo tempo lasciata senza una guida. Gli Stati Uniti erano saldamente di nuovo seduti al posto di comando, quello che lo storico Lundestad definisce letteralmente “driver’s seat”, posto di guida, e si poteva pertanto tornare a ragionare da “America”, e a imporre la propria visione del mondo, esportando democrazia a suon di bombe e a colpi di proiettili.

Quello a cui però oggi bisogna sottrarsi, nel delirio di onnipotenza in cui troppo spesso sono cadute le amministrazioni statunitensi, è il ragionamento basato esclusivamente su simboli, che non permette di tenere in conto quelle variabili che prescindono dai posti di comando di Washington. Questa è probabilmente la ragione per cui il modello di modernizzazione che gli Stati Uniti impongono al resto del mondo fallisce: la poca attenzione alle peculiarità locali e regionali, e la fondamentale assenza di una middle class sulla quale far attecchire i valori democratici.

Diventa quindi importante cercare di cogliere l’evoluzione del legame di stampo statunitense tra la sicurezza nazionale e quella globale. La fine della Guerra fredda ha imposto un cambio radicale nella gestione degli scenari di guerra in cui gli Stati Uniti sono coinvolti. Il disimpegno militare non ha però intaccato la leadership incontrastata dell’unica superpotenza rimasta sulla scena globale dopo l’implosione dell’impero sovietico. La modernizzazione in campo bellico rende possibile il paradosso di una guerra senza responsabilità, una guerra senza volto che non deve far i conti con le esigenze elettorali. È il caso delle cosiddette outsourced wars, guerre che contano sul campo la presenza di compagnie militari private a sostegno o in sostituzione degli eserciti nazionali, chiamate private military companies (PMCs). Si tratta di squadre speciali che operano per conto del governo che le paga, offrendo sostegno logistico nella pianificazione degli interventi, partecipando direttamente a conflitti interni e internazionali o provvedendo all’addestramento e all’equipaggiamento delle forze dell’esercito dello Stato per cui lavorano. Un rapporto pubblicato nel 2009 dal PRIO – International Peace Research Institute di Oslo – spiega che gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di contractor sul proprio libro paga (nella prassi si parla di “contractor” per indicare le persone che lavorano per queste società). E un altro studio dell’INSS – Institute for National Strategic Studies – spiega come in Iraq e Afghanistan l’utilizzo di contractor ha raggiunto numeri senza precedenti nelle operazioni militari americane. Per il governo americano i vantaggi di affidarsi a forze esterne derivano dalla maggiore velocità di dispiegamento sul territorio e dalla riduzione del numero di soldati americani impiegati nel conflitto e – di conseguenza – dalla riduzione delle “perdite ufficiali”. Dal gennaio del 2010, infatti, in Iraq e in Afghanistan sono morti più soldati appartenenti a milizie private che marines. Queste vittime sono – nel gergo militare – “off the books”, non sono registrate nei rapporti del Pentagono, la sede del quartiere generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti – ma in quelli del Dipartimento del Lavoro – e quindi rimangono escluse dal dibattito politico sui numeri di una guerra. Innegabile è anche il vantaggio economico: si risparmia sugli stipendi oggi e soprattutto sulle pensioni domani, dato che i contratti sono stipulati a tempo determinato e vincolati alle singole missioni. Gli svantaggi di affidare questioni ritenute di sicurezza nazionale a mercenari senza bandiera derivano invece dalla difficoltà di verificare la qualità del personale arruolato, e dal fatto che il governo non ha il pieno controllo delle interazioni quotidiane di queste truppe con la popolazione locale. Il coinvolgimento di mercenari sul campo di battaglia non è un fenomeno nuovo – presero parte anche alle guerre d’indipendenza ai tempi di George Washington – ma dagli anni Novanta è diventato sempre più comune rivolgersi alle compagnie di contractor. Uno studio dell’ICIJ – International Consortium of Investigative Journalists – rivela l’esistenza di almeno 90 compagnie militari private che operano in più di 110 Paesi nel mondo. Insomma, “l’amministrazione più trasparente della storia” – così definita dal presidente Obama in videoconferenza su YouTube – è coinvolta in scenari di cui non si trova traccia nei telegiornali della sera. In una testimonianza al Congresso, il giornalista Jeremy Scahill ha descritto così le “guerre ombra” dell’amministrazione Obama: “Se c’è stato un cambiamento, consiste nel fatto che Obama sta colpendo con più forza e in un maggior numero di nazioni di Bush. Sotto l’amministrazione Bush, le forze speciali statunitensi operavano in 68 nazioni. Sotto il presidente in carica operano in 75 nazioni”. Appaltare la propria sicurezza a compagnie private è quindi un rischio-opportunità che gli Stati Uniti sono disposti a correre per condurre le loro politiche mondiali a luci spente. Così facendo, la middle class in America non ha l’esatta percezione delle politiche militari intraprese dalle diverse amministrazioni. Mancando questa percezione, è possibile costruire il consenso e – in periodo elettorale – uniformare la classe media ai problemi che la attanagliano da vicino e allontanarla da quelli che invece non sembrano rappresentare emergenze. I numeri ufficiali delle guerre, grazie ai contractor, non rappresentano un’emergenza nazionale. La middle class può pertanto dormire sonni tranquilli.


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