* Dalle lezioni di Fernando Fasce e Matteo Battistini.

Famiglia davanti alla propria casa in un nuovo settore residenziale a Levittown, PA, 1950.
Immerso nella società statunitense, autoproclamatasi middle class society, il concetto di classe media presenta contorni sfuggenti e confini porosi. A prima vista si tratta di un concetto evanescente – “sociologicamente amorfo”, si potrebbe dire con Max Weber – poiché non sembra avere delle controparti sociali né sovrastanti né sottostanti, ma estendersi a perdita d’occhio fin dove si arresta la società americana. Un’apparente prerogativa della middle class statunitense, poiché se guardiamo a come in Germania veniva raffigurata l’equivalente Mittelstand non possiamo non rilevare il suo essere classe mediana, ovvero “classe di mezzo” tra la borghesia capitalista e la classe operaia. Da questo primo e fugace confronto con la realtà europea, emerge però immediatamente la dimensione storica e il significato politico di una categoria, quella di middle class, che non può essere derubricata a un mero e neutrale costrutto della sociologia. Il nostro obiettivo sarà dunque quello di ripercorrere alcune delle principali tappe nel percorso di costruzione di tale concetto, situandolo all’interno delle trasformazioni storiche occorse al capitalismo americano tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, ci soffermeremo su come alla fine del diciannovesimo secolo l’introduzione del taylorismo nella fabbrica americana finisca per spazzare via quella “classe media” di lavoratori qualificati e largamente indipendenti, impregnati dell’ideologia repubblicana del lavoro libero, che vengono rimpiazzati da lavoratori unskilled e dalla catena di montaggio. Il taylorismo finisce così per erodere i principi di self-rule propri della democrazia americana (Wiebe 1995), così come costituisce una nuova classe di lavoratori salariati non manuali, con funzioni di controllo e supervisione su processi produttivi drasticamente semplificati. Qualche decennio dopo il taylorismo, il fordismo fa il suo ingresso nello shop floor con il suo portato di salari alti e orari di lavoro ridotti. Un combinato che diffonde tra le classi meno abbienti la possibilità di accedere al consumo, il secondo elemento su cui focalizzeremo la nostra analisi, poiché esso appare costitutivo nella definizione della nuova middle class dei primi decenni del Novecento. Tuttavia, l’irrompere negli anni Trenta della Grande depressione segna la crisi di questo accesso allargato al consumo. Sono questi anni di profonda riflessione sulla crisi della classe media, ma anche di un rinnovato progetto storico e politico che le scienze sociali sembrano affidarle. Infine, ci soffermeremo sulla duplice natura del concetto di classe media, sulla sua capacità inclusiva ed esclusiva, concentrandoci sulla donna come elemento perturbante nello spazio apparentemente liscio della middle class.
1. Dal mestiere alla catena: una middle class in formazione tra taylorismo e fordismo
All’indomani della Guerra civile si registra negli Stati Uniti una fase di fortissima crescita economica ribattezzata Gilded Age. Si tratta in effetti di un’età dorata, nella misura in cui i travolgenti processi di modernizzazione che investono il paese generano altresì allarmanti disuguaglianze tra le élite finanziarie e industriali e le classi di lavoratori/produttori. Un quadro segnato da momenti anche cruenti di lotta di classe, da cui emergono i Knights of Labor, un gruppo a metà tra un sindacato e un’organizzazione del mondo della produzione, che al suo interno include non solo operai, ma anche artigiani e piccoli business man. Più in generale, i Knights of Labor puntano a organizzare la “producing class”, rappresentata come un’entità morale, culturale e politica che ridefinisce la dicotomia capitale-lavoro sul terreno della contrapposizione tra “parassiti” (banchieri, monopolisti, finanzieri) e “produttori”. Una dicotomia che non lascia ancora spazio a una classe media propriamente detta, ma suggerisce invece una visione della realtà politica e sociale che è propria del repubblicanesimo.
La virtù repubblicana, che consente l’accesso alla classe dei produttori, si esprime nel lavoro, visto come strumento di indipendenza e di autogoverno che fa dell’individuo un autentico cittadino della Repubblica. È facile sottolineare quanto tra le donne e le minoranze che svolgono i lavori più degradanti l’ideologia del repubblicanesimo attivi processi di esclusione, anziché di inclusione. Al tempo stesso, occorre vedere come attorno agli anni Novanta dell’Ottocento la virtù repubblicana appaia destinata a un rapido declino, dal momento che l’introduzione dell’organizzazione tayloristica nelle fabbriche fa sempre più del lavoro un dispositivo di comando anziché di autonomia, intaccando per giunta la centralità un tempo detenuta da artigiani e skilled workers nel processo produttivo.
Come osserva Robert Wiebe in The Search for Order e poi in Self-rule, a cavallo del Novecento negli Stati Uniti si assiste a un potente processo di razionalizzazione che agisce tanto a livello economico quanto a livello politico, producendo effetti ben visibili sulla stratificazione sociale, che acquista dimensione nazionale, e sulla definizione di middle class. Un processo che nelle strutture produttive comporta standardizzazione, parcellizzazione e formalizzazione delle mansioni lavorative, secondo i precetti stabiliti dall’ingegner Frederick Taylor. Fenomeni che non solo erodono l’autonomia di tutti i lavoratori, ma, nello specifico, riclassificano il ruolo e lo statuto della manodopera specializzata. Per quest’ultima tipologia di lavoratori, il mestiere fino ad allora svolto nelle piccole imprese o in ambito familiare rappresenta prima di tutto l’appartenenza a un universo professionale che, se anche trova il suo fulcro di applicazione pratica all’interno di un’entità giuridico-formale come l’impresa, ha comunque un’origine in larga misura dipendente dalla direzione e dalla proprietà dei mezzi di produzione: ciò rafforza negli operai qualificati una percezione del tempo trascorso in fabbrica che sembra riprodurre alcuni tratti di una prestazione di tipo artigianale. In tal senso, Thorstein Veblen osserva come la meccanizzazione e le nuove tecniche lavorative distruggono una “cultura proprietaria” delle classi lavoratrici fondata sul mestiere e, talvolta, simboleggiata dalla proprietà degli attrezzi.
Il passaggio “dal mestiere alla catena” (Fasce 1983) alimenta tuttavia la formazione di una classe media dipendente: se il sistema taylorista non necessita più delle competenze specifiche degli skilled workers, si serve nondimeno della vecchia manodopera specializzata, cui però vengono ora affidati i nuovi incarichi di controllo e supervisione richiesti dalle trasformazioni nel processo produttivo. Analogamente, il successo della grande impresa, spesso accompagnato da processi di incorporazione delle formazioni aziendali più piccole, diffonde un modello di business che richiede uno strato di white collar che andrà a ingrossare le fila di questa nuova middle class.
Dopo l’introduzione del taylorismo, nella fabbrica americana fa la sua comparsa il fordismo, la cui “simbolica data di nascita – scrive David Harvey – è sicuramente il 1914, quando Henry Ford introdusse la giornata lavorativa di otto ore a cinque dollari per gli operai della catena di montaggio automatizzata inaugurata l’anno precedente a Dearborn nel Michigan” (Harvey 1989). I Principles of Scientific Management di Taylor convivono così con l’erogazione di un salario che per la prima volta permette al lavoratore di accedere allo status di consumatore. Uno status che corrisponde a un’elevazione sociale immediata, ma soprattutto evoca l’idea di mobilità sociale quale veicolo di inclusione all’interno di una middle class che, dopo la Prima guerra mondiale, verrà sempre più definita in base ai criteri del reddito e del consumo. In altri termini, la possibilità di accesso alla middle class costituisce uno strumento politico per svuotare le lotte operaie del loro potenziale eversivo, in maniera tale da combatterle da una più rassicurante prospettiva di miglioramento graduale delle condizioni sociali, secondo la tesi del leader sindacale Samuel Gompers per cui la via d’uscita dalla schiavitù del salario è un salario migliore.
2. La middle class come categoria della normalità: tentativi di definizione
Il rinnovamento del sistema produttivo crea la necessità di collocare un numero sempre maggiore di prodotti su un mercato in crescita. La realizzazione di margini di profitto sempre più ampi sembra garantita dall’espansione del reddito, dovuta principalmente all’incremento dei white-collar workers. Su tali cambiamenti registrati sia sul piano della produzione che del consumo si concentrano le agenzie di marketing, che nel dopoguerra conoscono un notevole sviluppo. Esse sono di fatto le prime a cercare di definire sistematicamente la middle class, collocandola all’interno di un modello, il quale, essendo una categoria interpretativa per la collocazione di prodotti di consumo sul mercato, non può che avere parametri di riferimento di tipo economico. I potenziali acquirenti vengono quindi classificati come middle class soprattutto in base al loro reddito, e tale fascia viene eletta come target privilegiato per un certo tipo di articoli “figli” della produzione di massa. A ciò si aggiunge il ruolo svolto dal settore pubblicitario, con il suo tentativo di dare una nuova veste al ruolo del consumo nella società, dove a cavallo del secolo esso è, secondo alcuni osservatori, un’attività ancora “identificata con il lusso e lo spreco e considerata appannaggio del genere femminile” (Fasce 2012).
Di fatto una delle peculiarità della middle class statunitense sembra essere quella di essersi inizialmente formata non a partire da un auto-riconoscimento di tipo politico o economico in senso generico, quanto nell’assorbimento di un certo modello di consumo proposto dal sistema di produzione di massa. L’idea di uno standard of living della middle class viene proiettata anche attraverso i media, entrando gradualmente a far parte dell’immaginario popolare. In tale ottica, il consumo e l’acquisto di determinati prodotti sembrerebbero rappresentare non un elemento accessorio, come spesso la storiografia l’ha definito, bensì un punto cruciale intorno al quale si cerca di riunire un gruppo fortemente eterogeneo per orientamento politico, etnia e collocazione geografica. È infatti solo in un secondo momento che la categoria di middle class inizia a essere utilizzata e studiata dai sociologi, i quali cominciano a evidenziarne la complessità. Già attraverso i primi studi ci si rende conto, infatti, che il solo reddito come elemento di categorizzazione non è sufficiente a esplicare alcuni comportamenti socio-economici, quali ad esempio la presenza di diversi standard di consumo tra lavoratori con mansioni o appartenenti ad etnie diverse, ma con reddito simile. Sebbene quindi il consumo sia stato il primo elemento ad emergere associato alla categoria middle class, a causa anche dei soggetti che per primi la definiscono, tale fattore viene ben presto affiancato da altri di tipo politico e culturale.
Ferruccio Gambino ha osservato che la classe media è la “categoria della normalità” della sociologia statunitense (Gambino 1989). Nel discorso delle scienze sociali, la middle class ha storicamente indicato spezzoni diversi della società americana, ma ha tendenzialmente incluso al suo interno quel settore che di volta in volta risulta essere l’asse portante del paese. Come abbiamo visto, il passaggio più rilevante nel significato di middle class è stato quello dallo status di produttore/lavoratore indipendente a salariato, sia pure diversamente classificato via via che si sale la scala delle responsabilità gestionali. Tuttavia, la Grande Depressione si presenta come un’interruzione del processo di consolidamento di uno strato intermedio accessibile alla classe operaia. Ciò che si verifica negli anni Trenta è piuttosto, nelle parole di Lewis Corey, la “crisi della classe media”. Al tempo stesso, di fronte all’emergenza rappresentata dalla Depressione le scienze sociali tornano a riflettere proprio sul progetto politico e culturale incarnato dalla middle class, che, in questo senso, non può essere più pensata in termini meramente economici.
Non è un caso che alcuni scienziati sociali come Harold Lasswell cerchino di caratterizzare la classe media come strumento di rimoralizzazione della società, affidandole quella che era a tutti gli effetti una missione. L’obiettivo è cercare di istituzionalizzare il conflitto sociale, creando una serie di elementi che possano fungere da punto di riferimento per gli strati sociali inferiori. Realizzare un progetto di questo tipo equivale a mettere in salvo un’idea di società che finisce per basarsi sulla classe media. Secondo questo progetto il conflitto può eventualmente avvenire solo fra persone che hanno ormai accettato dei presupposti comuni – che sono i presupposti di tale middle class – e hanno molto da perdere da uno sconvolgimento radicale. In questo modo non si nega la possibilità di far valere le proprie opinioni, ma si garantisce che la dialettica avvenga all’interno di un’atmosfera controllata.
La classe media non viene infatti definita come un blocco granitico ma come una categoria aperta che appare accogliente e desiderabile a chi ancora non ne fa parte. Un discorso di questo tipo è strettamente legato al tema della mobilità. Esso riesce ad avere presa sugli individui se questi sentono di avere la possibilità di raggiungere quello stato di benessere che vedono ostentato da chi lo ha già ottenuto. Il messaggio che si cerca di trasmettere è che non è più necessaria una rivoluzione per migliorare la propria vita, basta cercare di scalare la piramide sociale.
Questo tipo di ottica porta infatti a pensare in modo individuale. Lo scopo è fare in modo che le rivendicazioni facciano sempre più fatica a essere portate avanti collettivamente. Così facendo, si riesce a creare un gruppo di persone che hanno sì gli stessi consumi e gli stessi modi di vivere, ma che allo stesso tempo non riescono ad agire facilmente come collettivo, svuotandolo di forza rivoluzionaria. L’idea dominante non è raggiungere tutti insieme un obiettivo, ma arrivare prima degli altri in questo nuovo contenitore chiamato classe media.
3. Le donne e la middle class: tra lager confortevoli e tentativi di evasione
Oltre al “Secolo breve”, il Novecento è stato spesso definito anche il “Secolo delle donne” (Vezzosi, 2007). Ma a concorrere a questa definizione sono stati fenomeni che affondano le proprie radici nella grande stagione di rinnovamento che, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, avrebbe portato molti altri cambiamenti, soprattutto nel mondo del lavoro.

Scena di ufficio, anni Venti.
Dal punto di vista della storia di genere, l’ascesa della categoria dei white collar ingenera l’inserimento nei censimenti dell’epoca (almeno stando agli analisti statistici, che lavoravano perlopiù per agenzie di comunicazione e marketing) anche delle donne che occupavano le professioni più classiche: la commessa, la centralinista, l’impiegata, … D’altro canto, “nel primo decennio del Novecento le donne entrarono in misura crescente nel mercato del lavoro, tanto che negli Stati Uniti le donne retribuite rappresentavano nel 1910 il 21% della forza lavoro del paese” (Vezzosi 2007).
Questa presenza femminile massiccia ha conseguenze tanto più grandi nei periodi bellici, soprattutto in relazione all’impiego delle donne nella burocrazia governativa, conseguenze legate al loro attivismo politico al fine di ottenere il diritto di voto. Ma è importante sottolineare come sia l’acquisizione di altri diritti, nello specifico diritti sociali, “(dalla protezione della maternità per le donne lavoratrici all’interdizione del lavoro notturno) a essere stata spesso precedente all’acquisizione del diritto di voto. Parallelamente al movimento suffragista, si svilupparono inoltre – negli Stati Uniti così come in Europa – movimenti femministi maternalisti, il cui tratto comune era costituito dal fatto di individuare nella maternità una condizione unificante del sesso femminile” (Vezzosi 2007). Il maternalismo si connota poi anche come movimento dei consumatori, nella misura in cui condannando alcolismo e corruzione (nelle sue evoluzioni più moralistiche), presenta anche effetti importanti nella dinamica del proibizionismo post-1929. Non è tralasciabile, all’interno di questo discorso, il ruolo quasi istituzionale della National Consumer League, composta per la maggior parte da donne, nel rappresentare il Public nelle commissioni attive nel primo Novecento, quando il diritto di voto era ancora esclusiva prerogativa dell’uomo.

Pubblicità di una lavatrice, anni Cinquanta-Sessanta.
Alla stagione del grande attivismo politico femminile, declinato nelle sue varie anime (dal suffragismo al maternalismo) segue dal Secondo dopoguerra in poi una stagione di quiete che è in realtà solo apparente, perché proprio nei silenziosi anni Cinquanta si vengono a creare le premesse per i grandi movimenti femministi degli anni Sessanta. Movimenti che denunciano il “male silenzioso dei lager confortevoli”, secondo la brillante definizione di Betty Friedan.
Questa problematica e contraddittoria condizione della donna viene determinata forse dall’eccessiva disponibilità di beni di cui la Golden Age dell’economia americana ha goduto dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta inoltrati. Una disponibilità di beni la cui fruizione diventa simbolo dell’appartenenza stessa alla middle class. Banalmente la lavatrice, l’aspirapolvere, gli elettrodomestici in genere diventano feticci di uno status, soprattutto del breadwinner americano: la moglie che non lavora, che può custodire i sani valori sociali nel suo ruolo di angelo del focolare, è sintomo in sé di un benessere tale per cui non è più necessario che entrambi i coniugi lavorino. Marketing, comunicazione e pubblicità concorrono a creare l’immagine di una donna emancipata, che non ha bisogno di sprecare tempo per la gestione domestica. Ma il punto è questo: dato che non deve lavorare, tempo per cosa? Probabilmente dovremo aspettare i movimenti femministi degli anni Sessanta per saperlo.